di Andrea Raffaldini

Come inizio non c’è male: partono le note di “Slave To The Grind”; la band sale sul palco gasata a mille; Sebastian Bach sale sul palco gasato a mille ed inizia a roteare il microfono, che dopo pochi secondi si disintegra e va in mille pezzi; il microfono di riserva non ha volume; Bach si incazza; Bach scaraventa il microfono per terra ed interrompe lo show; Bach va ad inveire contro i tecnici; ripartono le note di “Slave To The Grind” e finalmente tutto fila liscio tranne per la voce di Sebastian, che necessiterà di una decina di minuti per scaldarsi a dovere. “Kicking & Screaming” e “Dirty Power”, brani tratti dal repertorio solista del frontman americano, gli servono soprattutto per far carburare le corde vocali. Gli Skid Row vengono ancora chiamati in causa con “Here I Am” e “Big Guns”, finalmente interpretati a dovere e suonati in modo discreto dalla band. Una band che, dal punto di vista estetico, centra ben poco con il contesto. Un bassista che sembra uscito da una band metalcore ed un chitarrista che non stonerebbe in un gruppo melodic death scandinavo stonano con l’icona rock del biondo Seb. L’abito non fa il monaco e comunque diamo atto ai musicisti di aver compiuto a dovere il loro compito. Dopo un paio di canzoni soliste, tra cui la discreta “(Love Is) A Bitchslap”, si ritorna alle origini di Bach, agli Skid Row, con “Piece Of Me” ed una sentita “18 & Life”, che scatena l’approvazione del pubblico. Sebastian ancora una volta chiama in causa il suo illustre passato per concludere lo show: la romantica “I Remember You” prepara i presenti per il ruggito finale dell’immancabile “Youth Gone Wild”. Un concerto indubbiamente per nostalgici, incentrato sui grandi successi del passato, d’altro canto è questo che i fan vogliono sentire. Come dare loro torto?

Sebastian Bach

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